Lunedì, 29 Maggio 2023 08:09

8. L'Eucaristia e l'escatologia prolettica (anticipata)

John Keenan, SSS. 
Highland Heights (Cleveland), Ohio, Stati Uniti, 26/8/2022. 

Testo originale in inglese.

 

Il tempo in cui Gesù tornerà è chiamato in molti modi: la Parusia, il Giorno del Signore, il Tempo della Fine, l’Ultimo Giorno e la Seconda Venuta di Cristo. È la convinzione profondamente radicata che Gesù Cristo tornerà per chiudere l'attuale periodo della storia umana sulla terra. La Parusia nel Nuovo Testamento è un evento specifico che conclude la storia. “Nell'ultimo giorno” (Gv 6,54), quando gli uomini risorgeranno gloriosamente, raggiungeranno la completa comunione con Cristo risorto. Questo è evidente, dal momento che allora la comunione degli uomini con Cristo sarà in accordo con la piena realtà esistenziale di entrambi. Inoltre, con la fine della storia, la risurrezione di tutti i suoi compagni di servizio e fratelli completerà il corpo mistico di Cristo (Ap 6,11). Riflettendo questa convinzione, l'undicesimo Concilio di Toledo, nell'anno 675 d.C.) professò che la gloriosa risurrezione dei morti sarebbe avvenuta non solo sul modello di Cristo, ma anche sul “modello del nostro Capo”.[1]

Nel Nuovo Testamento viene attribuito un momento fisso alla risurrezione dei morti. Paolo, dopo aver annunciato che la risurrezione dei morti avverrà per mezzo di Cristo e in Cristo, aggiunge: “ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta (ἐν τῇ παρουσίᾳ αὐτοῦ), quelli che sono di Cristo” (1 Cor 15,23).[2] Un evento specifico è designato come il momento della risurrezione dei morti. Infatti, con il termine greco Parusia si intende la futura seconda venuta del Signore nella gloria, diversa dalla sua prima venuta nell'umiltà;[3] la manifestazione della sua gloria (cfr. Tit 2,13) e la manifestazione della Parusia (cfr. 2 Ts 2,8) si riferiscono alla stessa venuta. Lo stesso evento è espresso nel Vangelo secondo Giovanni 6,54 con le parole “nell'ultimo giorno” (cfr. anche Gv 6,39-40). La stessa connessione di eventi è espressa in modo vivo nella prima lettera ai Tessalonicesi 4,16-17.

La Chiesa primitiva si aspettava l'immediato adempimento delle profezie di Gesù. Si aspettava una Parusia imminente. Gli studi biblici hanno trovato prove di questa aspettativa in tutto il Nuovo Testamento e nei primi scritti cristiani. La più antica preghiera eucaristica che ci sia pervenuta, nella Didachè, termina con la parola aramaica Maranatha, cioè “Vieni, Signore!”. Il Libro dell'Apocalisse inizia con la promessa di mostrare “le cose che dovranno accadere tra breve” (Ap 1,1) e termina con le stesse parole della liturgia della Didachè: “Vieni, Signore Gesù!”.

Il termine prolessi indica l'espediente letterario di riferirsi a un evento futuro come se fosse già avvenuto e, quindi, esistesse come condizione presente. La prolessi è una forma di anticipazione, di supposizione di qualcosa prima che si verifichi, un tipo di annuncio o predizione.[4] I romanzieri lo fanno quando alludono a cose che verranno o quando omettono informazioni, quasi come se pensassero che il lettore le conoscesse già. Il risultato di questa prolessi è che il lettore o l'ascoltatore crea, anziché ricevere passivamente, le informazioni necessarie per completare la scena o le circostanze che lo scrittore o l'oratore si limitano a suggerire. In quanto tale, esprime anticipazione e sicurezza rispetto all'evento futuro. È il caso di chi viene invitato a una festa e dice: “Ci sono”, o di chi si riferisce a un prigioniero che verrà presto giustiziato come a un “morto che cammina”. Sebbene gli studiosi e gli scrupolosi studenti della Bibbia riconoscano la prolessi come una figura di stile biblico, troppo pochi si rendono conto della sua frequente presenza negli scritti biblici e della sua centralità nel messaggio biblico.

Tuttavia, esiste un'altra forma di prolessi che sottende la vita e il ministero di Gesù e si attualizza nel mistero dell'Eucaristia.[5] Nella terza preghiera eucaristica si parla della seconda venuta di Cristo alla fine dei tempi, quando Cristo tornerà nella gloria per emettere il suo giudizio finale sui vivi e sui morti. Dopo la consacrazione e la proclamazione del mistero della fede, la preghiera è rivolta a Dio, Padre nostro: “... nell'attesa della sua venuta nella gloria, ti offriamo, o Padre, in rendimento di grazie, questo sacrificio vivo e santo”.

Mentre l'Eucaristia risale nel tempo all'atto di salvezza di Dio nella morte e risurrezione di Gesù Cristo, allo stesso tempo la presenza di Gesù è sperimentata nella congregazione eucaristica come una realtà presente e mira nel tempo alla venuta di Gesù. Questo puntare in avanti non diminuisce tuttavia la presenza del futuro già goduto nel presente. Contrariamente all'opinione popolare secondo cui nell'Eucaristia ci viene comandato di ricordare le opere passate di Cristo e di considerarle come oggetto di lode e di gratitudine, la nozione biblica di anamnesi è descritta come un memoriale per Dio. Il nostro atto di presentare il pane e il vino eucaristici e di mangiarli insieme alla presenza divina ha lo scopo di “ricordare” a Dio l'azione che Lui ha iniziato attraverso la sofferenza, la morte e la risurrezione di suo Figlio. Questa azione è l'anello determinante dell'intera storia della salvezza, non solo dal concepimento dell'incarnazione alla risurrezione, ma dalla creazione al ritorno di Gesù Cristo. L'accento non è posto sulla nostra soggettiva rielaborazione mentale della Passione, ma sull'azione liturgica oggettiva che ha luogo all'interno della comunità credente di Dio. La memoria liturgica dell'azione di Dio a favore dell’umanità e in relazione ad essa nella storia è al tempo stesso un punto di partenza per il culto e scaturisce da esso. Il culto è legato all'anamnesi (ἀνάμνησις). Questo sostantivo greco, nel contesto del Nuovo Testamento, si traduce più comunemente in italiano come “ricordo, commemorazione, o memoriale”. Il culto cristiano è fondamentalmente un'anamnesi, una nozione centrale nella liturgia cristiana.

È un ricordo ‘attivo’ del mistero pasquale, della nostra salvezza attraverso la morte e la risurrezione di Cristo, in cui "il presente viene messo in intimo contatto con il passato" e viceversa. Tuttavia, questa descrizione dell'anamnesi è più simile al ricordo attualizzante che al semplice “ricordo ‘attivo’”.[6] Il comando del Signore non era “Pensa a questo”, ma piuttosto “Fai questo”. E ancora più forte: “Fate questo in memoria di me”.[7]

La caratteristica prolettica della fede biblica è che il messaggio biblico stesso, “la parola di Cristo”, che è l'oggetto e il contenuto della fede, secondo Romani 10,1, è la realtà qui e ora degli eventi futuri che il Suo messaggio e la fede cristiana anticipano. Questi eventi futuri sono le “cose sperate” e, poiché non si sono ancora verificate, sono le “cose non viste”. Quindi, parlare con fede significa parlare di questi eventi futuri - nello specifico, la Parusia, la futura venuta di Gesù risorto, la risurrezione dei morti, il giorno del giudizio e l'avvento del regno di Dio - come se fossero già avvenuti e, quindi, fossero una “realtà” presente. Una realtà non di fatto ma di fede, in quanto, pur non essendosi ancora verificati e non essendo ancora un fatto osservabile, sono destinati a verificarsi per il disegno di Dio, che ha rivelato il suo disegno nella sua promessa risalente ad Abramo (Gen 12,1-3; 15,1-6; 18,18; Rm 4,13; Gal 3,8). Ciò che Dio ha promesso deve accadere. Ciò che Dio ha promesso, dunque, è una realtà presente di fede, visibile solo agli occhi della fede, e sarà una realtà futura di fatto, visibile a tutti.

Parlare in modo fedele e credente significa sempre parlare in modo prolettico, cioè parlare del futuro promesso da Dio, rivelato nel messaggio biblico di Gesù e del regno di Dio, come se fosse già avvenuto e fosse quindi una realtà presente. È il messaggio biblico stesso, che Paolo chiama “la parola della fede” (Rm 10,8) perché costituisce ciò che viene creduto: La promessa di Dio della resurrezione dalla morte alla vita eterna nel regno di Dio, già realizzata nell'esperienza di Gesù stesso. La promessa di Dio, la parola della fede, è la realtà che Dio ha promesso perché Dio è fedele, che è la definizione biblica della rettitudine di Dio.

La caratteristica prolettica della fede biblica si rivela anche nel riferimento di Paolo al Dio “nel quale [Abramo] credette, che dà vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che non esistono” (Rm 4,17). In questo caso, “il morto” a cui Dio “dà vita” non è singolare ma plurale, τους νεκρούς, i morti e, quindi, l'attività di Dio di dare vita ai morti si riferisce alla futura risurrezione dei morti alla vita eterna nel regno di Dio. Ciò significa che Dio “ora dà la vita ai morti” come una promessa, che si compirà e, quindi, sarà sperimentata dai “morti” quando Gesù risorto, la cui risurrezione anticipa e assicura la risurrezione dei morti, verrà a risuscitare i morti, a giudicare il mondo e a portare il regno di Dio.[8]

Il dono della salvezza di Dio, dunque, è dato sotto forma di promessa: la grazia di Dio è la promessa di vita nell'età futura, assicurata dal perdono dei peccati che si è compiuto attraverso la morte di Gesù sulla croce, offerto a tutti e dato ai credenti nella parola biblica della promessa. La risurrezione di Gesù è dunque essa stessa l'evento passato che permette di parlare della futura risurrezione dei morti in modo prolettico, cioè come se fosse già avvenuta e fosse quindi una realtà presente (cfr. Ef 2,4-7). Allo stesso modo, l'annuncio di Gesù della buona novella del regno permette di parlare del regno di Dio in modo prolettico, come se fosse presente, perché si tratta infatti di una realtà presente della fede ed anche di un ricordo del passato.

La nostra memoria del Signore nell'Eucaristia ha tuttavia implicazioni sociali. L'anamnesi è un ricordo vivo di colui che si prende cura e perdona, che ascolta il grido del suo popolo e non lascia che la sua ferita e il suo dolore si protraggano per sempre, che cambia davvero la morte in vita e vince il male con il bene.[9] Una tale memoria della “promessa di presenza”[10] di Cristo per noi, scrive Morrill, è possibile solo se il culto è fondato sulla solidarietà con Cristo appeso per noi sulla croce. Morrill critica gran parte della liturgia contemporanea che commemora Cristo risorto ignorando Cristo crocifisso. Invece, seguendo la teologia politica di Johann Baptist Metz, Morrill sfida i cristiani contemporanei “a imitare” la kenosi di Cristo sulla croce, “assumendo il modello della sua azione disinteressata a favore della libertà per tutti, vivi e morti”.[11] Lo stesso Cristo presente nell'Eucaristia desidera essere presente in coloro che partecipano all'Eucaristia, in atti di solidarietà con i sofferenti e con i morenti. La solidarietà, con il suo imperativo di liberazione come Dio libera dalla sofferenza e dalla morte, è il legame tra la liturgia eucaristica e la liturgia di una vita di responsabilità sociale. Solo così, dice Morrill, il cristiano proclama attraverso una memoria viva e perennemente presente “la morte del Signore finché egli venga”.[12]

L'Eucaristia non è una compensazione per il rinvio della Parusia, ma un modo per celebrare la presenza di colui che ha promesso di tornare. È stato Gesù a stabilire un livello così alto di aspettativa nella comunità apostolica; ed è stato Lui a indicarne l'imminente compimento. Nell'Ultima Cena l'Eucaristia è stata presentata come un evento escatologico, una Parusia, una venuta del Regno. Lo indicano i dettagli significativi dei racconti biblici dell'Ultima Cena. Quando Gesù prende il pane e il vino, dice ai suoi apostoli: “Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, perché io vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio. Non berrò più del frutto della vite, finché non verrà il regno di Dio” (Lc 22, 15-16, 18). Come Cristo istituisce il sacramento, Egli istituisce il regno. Un attimo dopo, Cristo parla del regno in termini di “tavola” (22,27) e di “mensa” (22,30), un linguaggio che ricorrerà negli ultimi capitoli dell'Apocalisse. Inoltre, alla fine del Libro dell'Apocalisse si trova l'invocazione Maranatha. Sebbene esistano varie traduzioni possibili di Maranatha (“Il nostro Signore viene” o “Il nostro Signore è venuto”), a quel tempo si intendeva che essa significasse “Vieni, Signore”. Egli assicura al suo popolo che verrà presto a portare il giudizio (Ap 22, 7, 12, 20) e la preghiera riflette questa speranza del suo imminente ritorno.

Maranatha si trova anche alla fine di una preghiera eucaristica antica, forse la più antica conosciuta al di fuori del Nuovo Testamento, la Didachè 9,10. Questo collega il ritorno del Signore all'Eucaristia. Altri versi della preghiera sono ambigui: “Che questo mondo presente passi”, ad esempio, potrebbe implicare sia una comprensione letterale o apocalittica del ritorno del Signore, sia l'attuale effetto trasformante dell'Eucaristia. Maranatha nell'Eucaristia, tuttavia, sta chiaramente pregando per la venuta del Signore nella pienezza del Regno liberatore di Cristo.

Se cerchiamo un linguaggio apocalittico familiare, lo troviamo in abbondanza nel racconto di Luca dell'Ultima Cena ed è sempre espresso in termini eucaristici. Maranatha! è la prima preghiera eucaristica della Chiesa. Essa collega il ritorno del Signore all'Eucaristia.

L'Eucaristia è il mistero della fede, il mistero della morte vivificante del vincitore della morte. Questo è molto ben espresso nella liturgia bizantina delle Mattine Pasquali del Grande e Santo Sabato, quando la Chiesa proclama: Cristo è risorto dai morti, con la Sua morte Egli ha vinto la morte, e a coloro che sono nella tomba Egli ha concesso la vita.

 

Padre Keenan si trova attualmente in un periodo sabbatico ed è laureato in teologia e psicologia clinica. Ha partecipato alla guida della sua provincia in diversi momenti della sua storia ed è stato Superiore provinciale della Provincia di Sant’Anna da aprile 2021 ad agosto 2022.

 

[1] Denzinger, Schönmetzer. Enchiridion Symbolorum, *540, 287, p.180.

[2] Ἕκαστος δὲ ἐν τῷ ἰδίῳ τάγματι· ἀπαρχὴ Χριστός, ἔπειτα οἱ τοῦ Χριστοῦ ἐν τῇ παρουσίᾳ αὐτοῦ.

[3] Cfr. Credo Niceno-Constantinopolitano, Denzinger, Schönmetzer *150, 86, p. 66: “ed egli tornerà nella gloria”.

[4] Britannica, T. Editors of Encyclopaedia (2016, April 1). prolepsis. Encyclopedia Britannica. https://www.britannica.com/art/prolepsis-literature.

[5] Vedi Joachim Jeremias. The Eucharistic Words of Jesus (Norwich: Hymns Ancient and Modern Ltd, 2012).

[6] Bruce T. Morrill. Anamnesis as Dangerous Memory: Political and Liturgical Theology in Dialogue (Collegeville, MN: The Liturgical Press, 2000), p.177.

[7] Dennis C. Smolarski. Liturgical Literacy: From Anamnesis to Worship (New York, NY/Mahwah, NJ: Paulist Press, 1990), p.11.

[8] Τοῦτο ἤδη τρίτον ἐφανερώθη Ἰησοῦς τοῖς μαθηταῖς ἐγερθεὶς ἐκ νεκρῶν. Cf. Gv 21,14.

[9] Margaret Scott, The Eucharist and Social Justice (New York, NY/Mahwah, NJ: Paulist Press, 2009), p. 69.

[10] Morrill, Anamnesis as Dangerous Memory, p. 34.

[11] Morrill, p. 34.

[12] Morrill, p. 179.

Ultima modifica il Lunedì, 29 Maggio 2023 08:14