Il card. Martini saluta i detenuti al carcere S. Vittore, Milano
Quando un’amica volontaria mi ha invitato a scrivere qualcosa per Città Nuova sulla mia esperienza o, in generale, sul carcere, avevo già letto alcuni recenti articoli sulla rivista. In uno di questi ho letto la risposta che Aurora Nicosia ha ricevuto via e-mail da una sua amica, che ricopre un ruolo di dirigenza nell’ambito della giustizia, da lei invitata a scrivere sull’argomento. In sintesi, le aveva risposto: “Non me la sento, perché il periodo è difficilissimo, e luce sul futuro ne vediamo davvero poca”. Mi sono trovato in sintonia con queste parole perché, fatta eccezione per alcuni Istituti penitenziari che funzionano davvero ma che si contano su una mano, il quadro generale è drammatico. Se poi andiamo nel particolare, ancora peggio: mi riferisco a Poggioreale, dove svolgo il mio servizio come cappellano.
D’altronde, senza scomodare Voltaire secondo cui: “Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”, è chiaro che, a monte di tutto, il problema principale è culturale! Come società, non siamo in grado di avanzare spiritualmente (non è sinonimo di ecclesiale!) nella concezione della giustizia che non sia quella retributiva, afflittiva. Perlomeno in Italia, perché in alcuni Paesi dell’Europa del Nord c’è davvero un’impostazione che “vale la pena” per usare un gioco di parole, che educa e risocializza.
Sì, è una questione prettamente culturale ma si può dire, analogamente, spirituale. Cioè: non siamo in grado ancora di assumere quegli atteggiamenti spirituali necessari per gestire quelle conquiste che la storia, la scienza, le scienze umane, il diritto hanno fatto emergere come proprie dell’essere umano. L’art. 27 della nostra Carta Costituzionale è un bell’esempio là dove afferma che le pene, per quanto necessarie, “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione”. Ma è rimasto sulla carta, come purtroppo - nonostante tutti gli sforzi - gran parte dei diritti umani.
Mi accorgo però che sto scivolando in analisi che, per quanto importanti, non sono proprio di mia competenza e mi porterebbero lontano, rischiando di non rispondere al perché ho deciso di raccogliere la proposta di scrivere qualcosa. Perché il carcere c’è! Perché dentro ci sono sorelle e fratelli feriti come siamo tutti! Perché lì sarei potuto capitare anch’io!
Così, due immagini, tra le tante che circolano sul carcere, mi accompagnano in questo mio cammino con loro.
Una è forse tra le più citate e felici di papa Francesco in riferimento alla missione della Chiesa ma che si adatta perfettamente, secondo me, anche al carcere: “ospedale da campo”. |
Un’immagine che parla da sola. Quante battaglie si svolgono non chissà dove ma dentro le nostre città, le nostre strade, i nostri ambienti, anche quelli ecclesiali! Eh sì: “dentro” ci sono sorelle e fratelli che provengono anche dalle nostre parrocchie, quelle che noi continuiamo a chiamare “comunità”! Per questo, sento che “loro” mi appartengono e non solo perché la fede in Dio e il Vangelo di Gesù mi chiamano a sentirli miei fratelli, ma anche perché direttamente o indirettamente, volente o nolente, per la mia parte anch’io ho contribuito a questa società spietata nel creare innumerevoli illusioni che causano inevitabilmente scarti, feriti nel corpo e soprattutto nell’anima! Feriti, ferite aperte sono i tantissimi fratelli che incontro in quel grande ospedale da campo che è Poggioreale.
Cosa si fa in un ospedale da campo? Qui mi piace recuperare un’altra immagine che mi guida. La prendo a prestito da Henri Nouwen, che tanti anni fa scrisse un bellissimo libro intitolato: “Il guaritore ferito”. Non si hanno tutti i mezzi che servirebbero in un ospedale civile, figuriamoci in uno da campo come il carcere oggi!
Si cerca perlomeno di lenire, ma con un farmaco così essenziale che nessuna medicina o intelligenza artificiale può sostituire: una presenza che non può essere una qualsiasi! |
Me lo ripeto spesso, soprattutto quando lo scoraggiamento si fa sentire e cerco sostegno nella preghiera con il Maestro. Sono convinto che Gesù lo sentivano a chilometri di distanza! Perché era Presenza in contatto profondo con la Vita (Dio) e con sé stesso; suscitava fiducia, risvegliava energie sopite e per questo spesso, là dove trovava accoglienza, guariva anche. Non a caso, non attribuiva mai a sé la guarigione, ma diceva “La tua fede ti ha salvata/o” (Mc 10,52).
Il carcere, ospedale da campo, mi chiede ogni giorno: “Che presenza sono?”. Sono lì per loro o con loro? Perché, come ognuno di noi, anche loro sentono - eccome - se sono lì con loro consapevole della mia fragilità ma centrato, oppure arrogante della mia presunta fede e superficiale. Se sono lì da mestierante, oppure assetato di umanità.
E succede, sì, nei tantissimi colloqui, che si arrivi ad instaurare un rapporto fraterno di condivisione profonda di vita. E che si aprano spiragli dello Spirito da intravedere quanto desiderio ci sia dentro ciascuno di ascoltare la parte più bella che giace inascoltata spesso da tanto, troppo tempo. Sento che se ho questa (come si usa dire oggi) “postura” si arriva spesso a toccare punti nevralgici del cuore. Non solo per resistere “lì dentro” ma, paradossalmente, per crescere umanamente, esistenzialmente e, perché no, anche nella fede.
Perché, una volta raggiunta una certa sintonia ed empatia, ci si guarda volentieri negli occhi, a volte lucidi, e ci chiediamo: “Che cosa è essenziale, ora che mi trovo qui dentro?”. E si arriva ad intuire il bivio a cui la vita sempre ci pone di fronte: “tentazione od occasione”. La tentazione è la più facile da percorrere: buttare via tutto, sprecare energia e tempo passivamente e da arrabbiato, che non fa che aumentare il tasso di violenza interna ed esterna. Oppure, occasione per crescere interiormente e diventare più uomini a partire dall’accoglienza della ferita, della fragilità perché “non sono i fatti che contano ma ciò che diventiamo attraverso i fatti” (E. Hillesum). Anche in un ospedale da campo come è il carcere e da guaritori feriti, possiamo aiutare la Vita a fiorire perché “anche se non sono gigli, sono pur sempre figli, vittime di questo mondo” (F. De André).
Padre Pierangelo Marchi, sss
Comunità di Caserta
Notiziario Provincia Madonna del SS. Sacramento
17 aprile 2025 - N.16